È venuto il momento di affrontare il problema alla radice: ovvero partire dagli uomini.
A ogni notizia di un caso di abusi nei confronti di una donna—o molte, come nel recente scandalo che ha coinvolto il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein—il dibattito pubblico raggiunge livelli di caos e confusione totali.
Ed è proprio a seguito dello scandalo Weinstein, soprattutto in relazione ad Asia Argento, che ho potuto fare più caso a una questione che per abitudine tendiamo a ignorare: la discrepanza tra il modo in cui queste tematiche sono percepite da molti uomini (e una piccola percentuale di donne) e—be’, da tutti gli altri, donne, uomini gay ed etero illuminati e il resto dello spettro dei generi e degli orientamenti.
Insomma, mi sono resa conto che per alcuni dei ragazzi con cui mi confrontavo (premetto: anche persone colte, brillanti, aperte) era difficile circoscrivere in modo netto una violenza di genere o capire come distinguerla dall’insieme di situazioni nebulose che si creano nelle relazioni tra persone. E il fatto che queste cose vengano date per scontate, e che molti si sentano in difetto a chiedere e a manifestare la propria incomprensione, non aiuta certo il dialogo.
Per questo ho chiesto a colleghi e amici di rendermi partecipe delle domande che si sono posti in queste settimane (o in altri momenti), e ho risposto sulla base dell’esperienza condivisa con altre ragazze e con l’aiuto della psicologa e sessuologa Roberta Rossi, dell’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma.
“PERCHÉ MOLTE DONNE CHE SUBISCONO VIOLENZA RESTANO IN SILENZIO?”
Una mattina, quando avevo 13 anni, un uomo sull’autobus su cui mi trovavo ha iniziato a toccarmi il sedere. Quando mi sono scansata, all’altezza della fermata, lui è sceso premurandosi però prima di afferrarmi letteralmente con le mani la vulva. Avevo un paio di pantaloni di tela che non ho mai più voluto indossare perché mi facevano venire la nausea, con buona pace di mia madre che me li aveva appena comprati e mi chiedeva perché improvvisamente non mi piacessero più. Non sono mai riuscita a raccontarle questa storia, perché mi sentivo malissimo solo a provarci, mi vergognavo. La vergogna mi permetteva di seppellire il disagio e di non rendere ancora più concreta—perché esposta al giudizio altrui—la vicenda.